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Psichiatria (Comunicati stampa - 2009-07-22 14:18:45)

Terapia cognitiva e disturbi psichiatrici, scopriamola insieme

La terapia cognitiva è utile per il trattamento di molti disturbi psichiatrici, con un’efficacia pari o in alcuni casi addirittura maggiore rispetto agli psicofarmaci.

TERAPIA COGNITIVA: SCOPRIAMOLA INSIEME
Il presupposto principale è che la sofferenza mentale sia generata da contenuti mentali consapevoli, incongrui e disfunzionali, che sono modificabili e gestibili attraverso la riflessione consapevole.

Ad esempio, si ipotizza che l’ansia patologica dipenda da pensieri che sopravvalutano i segnali di pericolo e sottovalutano la propria capacità di fronteggiarlo. Oppure, il timore di parlare in pubblico (ansia sociale) dipende dal fatto che la persona timida ritiene che il giudizio del pubblico sarà sicuramente e completamente negativo e che la sua prestazione sarà inadeguata.

I pensieri consapevoli delle persone influenzano la sofferenza emotiva e il disadattamento ed è possibile gestire gli stati mentali di sofferenza e i comportamenti disfunzionali mediante l’analisi, la ristrutturazione cognitiva e un’aumentata flessibilità di questi pensieri consapevoli.

È efficace quanto gli psicofarmaci. Anzi, per esempio nel caso del disturbo di panico la terapia cognitiva è, sul breve periodo, altrettanto efficace del farmaco e, sul lungo periodo, più del farmaco.

Più di ogni altra è stata sottoposta a studi che ne hanno scientificamente e rigorosamente confermato l’efficacia, su diverse forme di sofferenza mentale. Un rapido elenco comprende: il disturbo da attacchi di panico (Barlow et al., 1989; Klosko et al., 1990), la fobia sociale (Heimberg et al., 1992), la depressione (Dobson, 1989; Nietzel, Russel, Hemmings e Gretter, 1987; Robinson, Barman e Neimyer, 1990; DeRubeis et al., 2005) e le ricadute della depressione (Evans et al., 1992; Shea et al., 1992), il disturbo post-traumatico da stress (Blanchard et al., 2004; Elhers e Clark, 2000), i disturbi alimentari (Fairburn et al., 1991; Mitchell et al., 1990).

È anche particolarmente adatta a gestire lo stress ansioso e depressivo generato dall’attuale periodo di crisi economica e sociale. Inoltre può fornire benefici anche a chi non soffre di uno stato di depressione oppure di ansia patologica, ma sta attraversando un periodo di crisi esistenziale, oppure di ridefinizione del proprio ruolo sociale, affettivo o lavorativo.

TERAPIA COGNITIVA: IN PRATICA
Il paziente diventa (entro certi limiti) terapeuta di sé stesso nel senso che apprende a gestire e padroneggiare in maniera autonoma i propri stati mentali.

Le ricadute sono rare. Questo perché la terapia permette di modificare le modalità di pensiero disfunzionali e fornisce al paziente delle risorse da cui attingere anche a distanza di anni, in caso di difficoltà.

Il trattamento non viene protratto oltre i due anni. Più precisamente, per disturbi di ansia, ossessivi, depressivi e alimentari non complicati da disturbi della personalità, il trattamento può durare da un minimo di tre mesi, con sedute a frequenza settimanale, fino ad un anno. E solo nel caso di disturbi più gravi può estendersi a due o più anni.

Gli strumenti sono l’accertamento dei contenuti cognitivi degli stati mentali, la loro revisione critica e la loro ristrutturazione in vista di un maggiore benessere psichico. Inoltre vengono suggeriti esercizi comportamentali che facilitano la ristrutturazione cognitiva ed istruiscono il paziente a fronteggiare le situazioni temute.

RAGIONA MEGLIO CHI È DEPRESSO
1. Secondo la teoria consolidata del noto psicologo americano Aaron Beck, causa delle nevrosi sarebbero gli errori di ragionamento, o errori cognitivi. Un lavoro pubblicato su Psychological Review ha dimostrato che questa prospettiva si può considerare parzialmente superata.

2. Il lavoro è firmato da Philip Nicholas Johnson-Laird insieme agli psicoterapeuti cognitivisti italiani Amelia Gangemi e Francesco Mancini. Il Prof. Johnson-Laird è uno dei massimi studiosi mondiali nel campo della psicologia del ragionamento, autore della teoria dei modelli mentali.

3. Gli studiosi hanno evidenziato che chi soffre di depressione oppure di disturbi ossessivi non ragiona peggio, ma meglio delle persone che non hanno lo stesso problema. Almeno, quando ragionano in domini sui quali sono esperti, come l’ansia e la paura.

4. Si aprirebbe così una nuova opzione terapeutica nell’ambito della psicoterapia cognitiva. Se i prossimi studi convalideranno questa teoria, infatti, sarà possibile accompagnare il paziente in un percorso che prevede l’apprendimento di una serie di strategie di maggiore accettazione del rischio, e non più di semplice correzione degli errori cognitivi.

PSICOTERAPIA E PSICOFARMACI: UNO A ZERO
La terapia cognitiva è utile per il trattamento di molti disturbi psichiatrici, con un’efficacia pari o in alcuni casi addirittura maggiore rispetto agli psicofarmaci. La conferma arriva dalle linee guida dell’APA, American Psychiatric Association, stilate sulla base di rigorose revisioni della letteratura scientifica. “La terapia cognitiva è quella che più di ogni altra è stata sottoposta a studi che ne hanno empiricamente e rigorosamente confermato l’efficacia su diverse forme di sofferenza mentale,” - spiega il Prof. Francesco Mancini, direttore dell’Associazione di Psicologia Cognitiva e della Scuola di Psicoterapia Cognitiva, scuole di specializzazione post-lauream in psicoterapia cognitiva. “Tra i vari disturbi per i quali la psicoterapia cognitiva ha dimostrato scientificamente la propria efficacia vi sono la fobia sociale, il disturbo ossessivo-compulsivo, la depressione, gli attacchi di panico e i disturbi del comportamento alimentare, in particolare la bulimia.” - sostiene la prof. Sandra Sassaroli direttore di Studi Cognitivi. Gli studi riportati dalle linee guida APA a supporto dell’efficacia della terapia cognitiva sono molti. Vale per tutti lo studio pubblicato sulla rivista scientifica Jama a firma del gruppo di psicoterapeuti Barlow, Gorman, Shear e Woods, condotto su 312 pazienti con disturbo di panico. I pazienti sono stati divisi in 5 gruppi diversi e curati con differenti terapie: solo imipramina (un farmaco antidepressivo di provata efficacia); solo terapia cognitiva; terapia cognitiva e imipramina; terapia cognitiva e placebo; solo placebo.

I risultati hanno dimostrato che la terapia cognitiva è più efficace del farmaco sul lungo periodo. Più precisamente, dopo 12 settimane di trattamento intensivo, terapia cognitiva e imipramina (sia separatamente che insieme) erano di efficacia equivalente ed entrambe superiori al placebo. Dopo 6 mesi di trattamento di mantenimento, terapia cognitiva e imipramina erano di efficacia equivalente, entrambe superiori al placebo e inoltre la combinazione di terapia cognitiva e imipramina era più efficace dei due trattamenti separati. Dopo altri 6 mesi in cui i pazienti non avevano ricevuto alcun trattamento, terapia cognitiva e terapia cognitiva con imipramina erano ancora efficaci mentre il gruppo 1 che aveva ricevuto solo imipramina non era più in condizioni migliori del placebo. Ciò dimostra che la terapia cognitiva è più efficace dei soli psicofarmaci se si considera la tenuta del miglioramento nel tempo: la psicoterapia continua ad essere efficace, anche dopo la sua conclusione, al contrario dei farmaci. Le linee guida dell’APA sono, dunque, una svolta nell’approccio ad alcuni disturbi psichiatrici e ridimensionano la tendenza a un esagerato ricorso agli psicofarmaci che in questi ultimi anni sono stati a volte considerati alla stregua di una panacea.
“Da un’attenta analisi di queste linee guida emerge che la psicoterapia cognitiva rappresenta, ad oggi, il trattamento da consigliare al paziente come intervento elettivo per molti disturbi psichiatrici” - interviene Mancini -. “Un rapido elenco comprende le forme di ansia e più precisamente il disturbo ossessivo-compulsivo, il disturbo da attacchi di panico, la fobia sociale, la depressione e le ricadute, il disturbo post-traumatico da stress e i disturbi alimentari e in particolare la bulimia.
Va chiarito anche che quando la terapia cognitiva non viene indicata tra i trattamenti raccomandati, non significa necessariamente che non funzioni. Può essere invece, come spesso accade in medicina, che sono ancora poche le ricerche rigorose condotte per valutarne l’efficacia.” Sì quindi alle cure farmacologiche quando sono necessarie. Ma sì anche alla psicoterapia per risolvere le difficoltà psicologiche che causano i malesseri.
“Il presupposto principale della terapia cognitiva è che la sofferenza mentale sia generata da come le persone interpretano e valutano gli eventi, in particolare se stessi e le loro relazioni più significative. Interpretazioni e valutazioni che il paziente va aiutato a riconoscere, distanziare e modificare attraverso tecniche di comprovata efficacia. Le tecniche cognitive sono solo alcuni tra gli svariati strumenti di cambiamento efficaci che ha a disposizione la psicoterapia cognitiva, la quale si avvale anche di tecniche immaginativo-evocative, come l’imagery with rescripting, la visualizzazione guidata, e comportamentali, come l’esposizione con prevenzione della risposta. L’idea di fondo è quella di usare strategie di provata efficacia, adattandole in maniera specifica, per ciò che concerne i tempi e le modalità di attuazione delle stesse, alle necessità del singolo paziente; questo approccio consente la messa in atto di trattamenti che sono al tempo stesso sperimentalmente validati e clinicamente flessibili.” - spiega il Prof. Mancini. Le numerose ricerche sperimentali condotte negli anni sui meccanismi che generano e aggravano i vari disturbi d’ansia hanno dimostrato il ruolo cruciale delle valutazioni di pericolo e dei processi cognitivi con cui si elaborano le informazioni riguardanti i pericoli stessi. Alla base dei disturbi d’ansia vi è, infatti, da una parte, una sopravvalutazione dei segnali di pericolo e, dall’altra, una sottovalutazione delle proprie capacità di fronteggiare il pericolo stesso. L’ansia di parlare in pubblico e la conseguente inibizione a farlo dipende dalla convinzione a priori di ricevere un giudizio completamente negativo a causa di una prestazione che viene ritenuta di sicuro inadeguata: è il caso della fobia sociale.
Con la psicoterapia cognitiva il paziente impara a gestire e padroneggiare in maniera autonoma i propri stati mentali. “Gli strumenti sono l’accertamento dei contenuti cognitivi degli stati mentali, la loro revisione critica e la loro ristrutturazione in vista di un maggiore benessere psichico” - concludono Mancini e Sassaroli.


SCHIAVI DI UN PENSIERO
Tre su cento nel corso della loro vita sono destinati a soffrire di Disturbo Ossessivo-Compulsivo. Con una spirale senza fine di pensieri, idee o immagini ricorrenti che schiavizzano la vita. Eppure si può curare bene. Lo dicono i dati di una review effettuata su dodici studi clinici e pubblicata su Clinical Handbook of Psychological Disorders. Con la terapia cognitiva infatti l’83% dei pazienti che completano il trattamento guarisce e il 76% mantiene i benefici nel tempo. A differenza di quanto avviene nei pazienti trattati solo con la cura farmacologica.

A conferma di questa nota revisione della letteratura c’è anche uno studio a firma italiana, condotto dagli specialisti della Scuola di Psicoterapia Cognitiva e dell’Associazione di Psicologia Cognitiva. I pazienti sono stati trattati con un programma di terapia cognitiva suddiviso in cinque fasi. L’obiettivo era di ricostruire insieme al paziente lo schema di funzionamento del disturbo in modo da razionalizzarlo, far accettare il rischio di essere assalito dai sintomi, fino ad arrivare a interventi volti a ridurre la vulnerabilità del paziente. Il trattamento ha portato a un miglioramento significativo della sintomatologia ossessiva. “Al trattamento tipico della terapia cognitiva, si associano delle procedure finalizzate ad aumentare l’aderenza dei pazienti al trattamento, aspetto critico della cura, e a rendere più stabili nel tempo i cambiamenti ottenuti,” - spiega il Prof. Francesco Mancini, tra gli Autori dello studio. - “Tali procedure sono direttamente derivate dalle ricerche fatte sul disturbo ossessivo-compulsivo in oltre vent’anni di attività che hanno evidenziato, da un lato, il ruolo cruciale del senso di colpa nello sviluppo del disturbo e, dall’altra, l’utilità nella cura di procedure di accettazione delle minacce temute. Aspetto cruciale del trattamento è la cosiddetta esposizione con prevenzione della risposta. È una procedura che consiste nel mettere in contatto la persona con la situazione temuta, in accordo con il paziente e in associazione ad una serie di accorgimenti. A titolo esemplificativo prendiamo il caso di un paziente che percepisca come minaccioso il contatto con il sangue e, per associazione, con ogni macchia o traccia di colore rosso non chiaramente identificata e che, di conseguenza, eviti ogni contatto e si lavi ripetutamente se sospetta il contatto. In questo caso una forma di esposizione è mettere il paziente in contatto con macchie rosse ordinate per minacciosità (ad esempio da macchie piccole e asciutte a macchie grandi e umide), aiutando il paziente a non mettere in atto ciò che spontaneamente farebbe, cioè lavaggi ripetuti.”
Una catena, dunque, quella provocata dal disturbo ossessivo compulsivo, che si può tranciare. Con la terapia cognitiva, infatti, si riduce la vulnerabilità del paziente al disturbo ossessivo-compulsivo. E non è poco. Questa particolare forma di ansia infatti ha la caratteristica di essere invalidante e, se non viene curata adeguatamente, tende a cronicizzare. La qualità della vita di chi ne soffre viene intensamente danneggiata, così come quella dei familiari del paziente. Infatti il disturbo spesso è incompatibile con una normale vita sociale, affettiva e lavorativa. “Il Doc (disturbo ossessivo-compulsivo) comprende, come dice il nome stesso, ossessioni e compulsioni,” - interviene Mancini. - “Le prime consistono in idee, pensieri o immagini ricorrenti o persistenti che insorgono improvvisamente nella mente del paziente e che vengono percepiti come intrusivi e privi di senso. Le compulsioni invece sono atti mentali, come ad esempio contare o ripetere parole, oppure comportamentali, come lavarsi spesso le mani, controllare la manopola del gas, ordinare oggetti, messi in atto allo scopo di neutralizzare un disagio emotivo e prevenire una minaccia temuta.” Ma la ricerca sulla mente di chi ha un disturbo ossessivo-compulsivo continua. Le indagini ora sono rivolte alla comprensione di altri meccanismi. “Per quanto in misura ridotta,” interviene il professor Mancini, “rimane una percentuale di pazienti che non risponde al trattamento, oppure rifiuta di sottoporvisi. Resta quindi un problema aperto capire quali fattori, come tratti di personalità, caratteristiche interne al disturbo, aspetti contingenti o altro, rendano prevedibili oppure spieghino i fallimenti o le interruzioni del trattamento.”

Fonte: Ketchum